martedì 24 dicembre 2013

Quando re Piffero andò in visita all'inferno… e ne fece ritorno.


C’era una volta – o forse c’è ancora - quel re…
Quel re che, un giorno, decise di andare in visita agli inferi.
Un degno corteo di consiglieri fraudolenti, scismatici, seminatori di discordia, ladri, bari, imbroglioni, usurai, ruffiani e seduttori, adulatori senza dignità, ignavi, si formò lungo la strada e lo accompagnò.
Aveva bisogno di visitare quella che sarebbe stata la dimora che lo avrebbe ospitato per l’eternità e, così, si incamminò.
All’ingresso di una grande caverna  lo attendeva  Minosse. Piffero lo salutò così come si deve ad un pari. Scostò l’elmo cornuto per evitare che le nobili protuberanze si intruppassero con quelle dell’antico sovrano e a lui, che esercitava il mestiere di giudice delle anime assegnando loro la destinazione eterna, chiese informazioni sul girone di destinazione.
Minosse, che di gente “curiosa” all’inferno ne aveva vista passare e conosciuta tanta, alla vista di quello strano personaggio dal lungo naso, chiacchierone dal moscio accento e un po’ ciarlatano, non sapeva cosa fare. Il ruolo di giudice dei dannati gli imponeva di ascoltare le ragioni di tutti, quindi anche le sue. Re Piffero, impettito e ripetitivo, elencò i meriti che lo avevano portato fin laggiù.
Sire – esordì – oggi, trovarmi di fronte a tanta immacolata bellezza è il più bel giorno della mia vita. Mai avrei pensato che madre natura avesse voluto concentrare in sua maestà tanta sublime grazia testimoniata dalla dolcezza dei suoi tratti…”
Minosse, a cui nessuno aveva mai rivolto tali apprezzamenti, e che tutto poteva essere fuorché bello ed attraente, si mostrò subito pensieroso e pensò : “vuoi vedere che questo è venuto fin quaggiù per prendermi per i fondelli?”.
Piffero aggiunse : “…Io, in vita mia, ho sempre raccontato la verità e, con l’onesto lavoro quotidiano, perseguito il bene per i miei sudditi ed ho sacrificato la mia vita e l’affetto per la famiglia.
Ho amministrato con intelligenza dimostrando sensibilità nei confronti dei bisognosi. I miei sacrifici, però,  non sono mai stati capiti.
 I miei nemici hanno sempre denigrato tutto quello che di buono ho cercato di fare. Non hanno capito cosa vuol dire sacrificarsi per il popolo. Loro mi hanno accusato di essere un cinico, opportunista imbroglione, capace solo di privilegiare amici, familiari e compari.
Si  sbagliano!!! Non ho mai detto che avrei preferito far morire, piuttosto che curare, qualche mio suddito impertinente. Ho sempre perseguito la giustizia e tutelato la legge. Non ho mai nascosto i miei imbrogli. Non ho mai rifiutato aiuto a qualche bisognoso, anche se era un poveraccio rompiscatole. L’ho anche  tenuto vicino al mio cuore. Al popolo ho dato strade pulite, cibo per i figli, lavoro,feste… Chi dice il contrario diffama!!!
Continuò. Non fidarti se qualcuno ti racconta che persino la Piffera non crede più alle mie doti ruffiane cercando altre consolazioni. Mai ho imbrogliato le carte e pensato di andare ad occupare altro trono che non fosse quello sul quale sono stato seduto e di cui non ho approfittato. Non ho mai messo le mani nelle casse del regno utilizzando il denaro dei tributi per pagare i miei banchetti. Anche quando non ero ancora re ho sempre pagato sino all’ultimo tributo e se ti hanno raccontato il contrario, e che a qualcuno non ho mai dato in cambio nulla pretendendo le 60milapiffer, è la solita bugia dei malpensanti … Credimi – implorò di nuovo - se ti dico che incontrarti, per me, è il più bel giorno della mia vita…“.
Il povero Minosse, a stento, riuscì a contenersi. Stremato aveva quasi voglia di mordersi di nuovo la coda pur di non sopportare le sue panzane e non ridere di fronte a tanta faccia tosta.
Il Piffero era noto anche all’inferno per la sua capacità di contar balle e i cornuti diavoletti all’ingresso non vedevano l’ora di poter accarezzare con le loro lunghe fruste – soddisfacendo - la schiena e le natiche del loro ospite.
Allora, il cornuto giudice, indicò il cerchio cui Piffero era destinato.
Chiamò Grifolino, gli chiese di salire, e lo pregò di presentare il “questuante” a quelli che sarebbero stati i suoi compagni per l’eternità, li nell’ottavo circolo quello dei  falsari di parole e bugiardi cronici. 
Così la Brigata spendereccia, il Capocchio, Mastro Adamo e la Moglie di Putifarre quella che, al Piffero, donò la tonaca di Giuseppe per invitarlo a coprire le sue indecenze, decisero di organizzare un grande evento in suo onore.
Il fantasma di Narciso, al cospetto di quell’ospite, da quel momento cominciò a dubitare della sua immagine
Piffero, non aveva i denari per partecipare alla festa, ma decise lo stesso di dare il suo contributo, impegnando l’anima… dei suoi sudditi.
Ritornato ad Onassas, in “attesa del momento in cui l’avrebbero deposto, in cui avrebbe dovuto lasciare il trono, lo scettro, la corona”, chiamò il fido Sculetta, Appendiquadri, Capatesa ed ordinò di contaballare al popolo preoccupato che, presto, il regno di Onassas avrebbe goduto di lavoro, benessere e bellezza dei luoghi a patto che…

domenica 24 novembre 2013

Il re in ascolto...

Di Italo Calvino

Lo scettro va tenuto con la destra, diritto, guai se lo metti giù, e del resto non avresti dove posarlo, accanto al trono non ci sono tavolini o mensole o trespoli dove tenere, che so, un bicchiere, un posacenere un telefono; il trono è isolato, alto su gradini stretti e ripidi, tutto quello che fai cascare rotola e non si trova più.
Guai se lo scettro ti sfugge di mano, dovresti alzarti, scendere dal trono per raccoglierlo, nessuno lo può toccare tranne il re ; e non è bello che un re si allunghi al suolo, per raggiungere lo scettro finito sotto un mobile, o la corona, che è facile ti rotoli via dalla testa, se ti chini.
L'avambraccio puoi tenerlo appoggiato al bracciolo, così non si stanca: parlo sempre della destra che impugna lo scettro; quanto alla sinistra resta libera; puoi grattarti se vuoi; alle volte il manto di ermellino trasmette un prurito al collo che si propaga giù per la schiena, per tutto il corpo.
Anche il velluto del cuscino, scaldandosi, provoca una sensazione irritante alle natiche, alle cosce. Non farti scrupolo di cacciare le dita dove ti prude, di slacciare il cinturone con la fibbia dorata, di scostare il collare, le medaglie, le spalline con le frange. Sei Re, nessuno può trovarci da ridire, ci mancherebbe anche questa.
La testa devi tenerla immobile, non dimenticarti che la corona sta in bilico sul tuo cocuzzolo, non la puoi calzare sugli orecchi come un berretto in un giorno di vento; la corona culmina in una cupola più voluminosa della base che la regge, il che vuol dire che ha un equilibrio instabile: se ti capita d'appisolarti, di adagiare il mento sul petto, finirà per ruzzolare giù e andare in pezzi, perché è fragile, specie nelle parti di filigrana d'oro incastonate di brillanti.
Quando senti che sta per scivolare devi avere l'accortezza di correggere la sua posizione con piccole scosse del capo, ma devi stare attento a non tirarti su troppo vivamente per non farla urtare contro il baldacchino, che la sfiora coi suoi drappeggi.
Insomma, devi mantenere quella compostezza regale che si suppone connaturata alla tua persona. Del resto, che bisogno avresti di darti tanto da fare? Sei re, tutto quello che desideri è già tuo. Basta che alzi un dito e ti portano da mangiare, da bere, gomma da masticare, stuzzicadenti, sigarette di ogni marca, tutto su un vassoio d'argento; quando ti prende il sonno il trono è comodo, imbottito, ti basta socchiudere gli occhi e abbandonarti contro la spalliera, mantenendo in apparenza la posizione di sempre: che tu sia sveglio o addormentato non cambia nulla, nessuno se ne accorge...
Insomma tutto è stato predisposto per evitarti qualsiasi spostamento. non avresti nulla da guadagnare, a muoverti, e tutto da perdere. Se t'alzi, se t'allontani anche di pochi passi, se perdi di vista il trono anche per un attimo, chi ti garantisce che quando torni non ci trovi qualcun altro seduto sopra? Magari uno che ti somiglia, uguale identico. Va poi a dimostrare che il re sei tu e non lui! Un re si distingue dal fatto che siede sul trono, che porta la corona e lo scettro.
Ora che questi attributi sono tuoi, meglio che non te ne stacchi nemmeno per un istante.
C'è il problema di sgranchirti le gambe, d'evitare il formicolio, l'irrigidirsi delle giunture: certo è un grave inconveniente. Ma puoi sempre scalciare, sollevare i ginocchi, rannicchiarti sul trono, sederti alla turca, naturalmente per brevi periodi, quando le questioni di Stato lo permettono.
Ogni sera vengono gli incaricati della lavatura dei piedi e ti tolgono gli stivali per un quarto d'ora; alla mattina quelli del servizio deodorante ti strofinano le ascelle con batuffoli di cotone profumato.
Insomma, il trono, una volta che sei stato incoronato, ti conviene starci seduto sopra senza muoverti, giorno e notte.
Tutta la tua vita di prima non è stata altro che l'attesa di diventare re; ora lo sei; non ti resta che regnare. E cos'è regnare se non quest'altra lunga attesa?
L'attesa del momento in cui sarai deposto, in cui dovrai lasciare il trono, lo scettro, la corona, la testa.

venerdì 30 agosto 2013

L’epopea del perfido Avvelenavipere… Il filibustiere ispiratore del Re.


C’era una volta – o forse c’è ancora - un re …
E, con lui, c’era il consiglier Avvelenavipere quello che poteva parlare senza chiedere il permesso, che non appariva quasi mai, ed aveva sempre l’ultima parola sulle questioni che riguardavano il regno …
Ognuno, affermava, “in casa propria fa ciò che vuole”, e dava sempre ragione alla moglie quando ricordava : “ noi, non abbiamo pietà di nessunooo!!!”.
Lui, si sentiva sempre padrone… Anche in casa d’altri, tanto da contribuire a fare, della casa di tutti, il letamaio del regno.
Re Piffero non avrebbe mai potuto aspirare al trono senza l’aiuto del pusillanime consigliere che, in cambio, lo usava come le massaie i coperchi degli orinali.
Era quello a cui gli spifferi, prima di uscire dal palazzo, chiedevano il permesso. E, i raggi di sole, non entravano mai dalle finestre aperte senza che, Avvelenavipere, consentisse loro di illuminare le stanze e l’attività che in esse si svolgeva.
Accompagnato sempre dal “fido” consiglier Er Nasca, e dal “reggicoda” Sor Ntoppa, si presentava come persona docile e buona. Disponibile. Caritatevole. Uomo di pace e benefattore.
Era facoltoso, ma tanti erano i dubbi sulla sua fortuna.
Aveva la possibilità di aprire il salvadanaio e dare denaro a chi ne avesse avuto bisogno. Era anche disponibile all’elemosina. Donava ai bisognosi solo ciò che, in realtà, poteva essere dato in pasto alle bestie. E, i questuanti, in anni di vacche magre, non mancavano mai.
Persino quando organizzava qualche festa badava sempre a non trascurare la servitù. Gli ospiti illustri da una parte e, dall’altra, vi era, ogni volta, qualche bettola per i meno fortunati ove, Avvelenavipere, li riceveva.
Se si impegnava in qualcosa riusciva sempre ad accrescere la sua influenza personale ed a trarne beneficio. Per la sua famiglia e qualche servitore.
Era riuscito persino a “speculare sull’aria”, che pur avrebbe dovuto essere gratuita, traendone profitto. Riuscì a far credere che solo quella contenuta nei suoi otri fosse pura e salutare.
A qualcuno, che si era visto costretto a chiedere il suo aiuto - si raccontava –, “facilitò” l’ascensione nell’aldilà. Salvo, poi, far finta di essere turbato per quel che era accaduto allo sventurato. 
A lui interessava poco occuparsi del prossimo. La beneficenza era solo lo specchio per le allodole utilizzato per coprire i traffici che gli stavano più a cuore, come il commercio che aveva creato attorno al “Monte dei Pegni” che aveva fatto suo …
Un giorno successe che una delle poche anziane del borgo, che ancora si fidavano, si recasse a ritirare ciò che le rimaneva per tirare a campare ma, con sua grande sorpresa, scoprì che, Avvelenavipere, né aveva fatto fare un uso diverso da quello sperato e, alla malcapitata, non restò che rammaricarsi della fiducia tradita. Non recuperò mai  i suoi pochi beni.
Per riuscire a gestire i suoi affari non esitava ad utilizzare i poveri servitori che erano costretti a lavorare con lui. Su di loro faceva ricadere la responsabilità di tutto ciò che chiedeva venisse fatto. Lui se ne lavava le mani, e non esitava a mandarli via quando non gli servivano più.
A loro chiedeva di pretendere più del dovuto, affinché potesse avere sempre liquidità, da cui attingere, per gratificare la sua corte dei miracoli.
Anche a quel tempo la “riba”, e poi usura, era considerata un peccato e i giudici la punivano. Ma non nel caso di Avvelenavipere. Qualche giudice faceva finta di non vedere e, se qualcuno urlava, persino, di non sentire. Lui, sapeva come imbonire qualche disgraziato che pretendeva di chiamarlo a rispondere delle sue prepotenze. Quando i commercianti, o i debitori, non erano in grado di restituire ciò che gli era stato concesso pretendeva, in cambio, il banco della frutta, la stalla, il mulino e quant’altro, che poi donava ai familiari.
Nel mercato di Onassas molti banchi, il mugnaio, le locande e tanti mercanti, per sopravvivere, erano costretti a chiedere denaro al suo Monte dei Pegni. Lui, prima appariva munifico concedendolo, poi, ne pretendeva la restituzione a caro prezzo. Altrimenti, gli sgherri, portavano via la casa, il carro, gli asini o i buoi utilizzati per arare.
Quando incrociava i suoi debitori per strada, o nelle locande, li salutava, sorridendo beffardamente sotto le tonde lenti poggiate sul naso, ricordando loro “il peso che portavano sul groppone” e scandendo il tempo che mancava per la restituzione.
Intere famiglie dovevano sopportare i suoi “umori”.
Una volta, invaghitosi di una giovin figliola della quale aveva il triplo degli anni, aveva persino litigato con un vicino pretendendo di essere lui il privilegiato … Pensava che tutto gli fosse dovuto!
Rispetto, stima, ubbidienza e, se qualcuno osava ostacolarlo, lui minacciava di farlo interdire dall’autorità che, a quel tempo, era al servizio dei potenti. Infatti, sedevano allo stesso tavolo. Partecipavano alle stesse feste. Si servivano degli stessi lupanari e dividevano le stesse donne che gli azzeccagarbugli, spesso, procuravano loro. 
Quando Re Piffero si insediò sul trono - Avvelenavipere - affrontò il regnante sconfitto e, con soddisfazione, gli ricordò gli anni che aveva impiegato per mandarlo via, sghignazzando, aggiunse : “alla fine ci sono riuscito”…
Quello, però, fu il principio della fine. Chi non lo conosceva ebbe modo di apprezzare tutto il livore, e l’odio, di cui era capace nei confronti, soprattutto, dei più deboli e di chi non si piegava mettendosi al suo servizio.
La sua incapacità a lavorare nell’interesse del popolo si manifestò in tutta la sua rozza volgarità ma, intanto, molti occhi cominciarono ad aprirsi, orecchie ad ascoltare e gambe stanche e disilluse ripresero a camminare…

venerdì 26 luglio 2013

RE PIFFERO e …Il concerto per “piffero e pantegane”.



C’era una volta – o forse c’è ancora - quel re…   
Quel re di un paese che, un giorno, decise di ospitare tutte le pantegane del mondo.  
E si, fu proprio così!!!  Mentre dal regno andavano via tutti, perché cercavano fortuna altrove ed il futuro dei sudditi veniva ipotecato al monte dei pegni di proprietà di Avvelenavipere, le pantegane e le loro famigliole, dai circondari vicini, si trasferirono ad Onassas.

Anche a loro l’ospitalità del gentile sovrano, dalla cornuta corona, non era sconosciuta. Ne avevano sentito parlare e ne volevano saggiare la veridicità…

Le strade piene di rovi, e gli orti,  si trasformarono, così, nelle loro dimore.
I pochi onassassini rimasti se le trovavano dappertutto. Sui davanzali. Nelle dispense.
Di giorno approfittavano del fresco delle cantine e, di sera, lo prendevano insieme alle “comari” che davanti all’uscio delle loro abitazioni, da sempre, ne approfittavano per alleviare la calura della stagione arricchendo quei momenti con i loro pettegolezzi.
Le pantegane, da simpatici ospiti, si trasformarono, però, in invadenti, irritanti e moleste dirimpettaie e i sudditi di Onassas cominciarono ad infastidirsi della loro presenza.
Le lamentele non venivano fatte mancare e, come sempre, vennero fatte presenti al Piffero… Ma, a differenza delle tante volte nelle quali si era dimostrato interessato alle lamentele dei sudditi nei confronti dei suoi diffamatori abituali, questa volta non parve essere  convinto.
Anzi, accusò chi si lamentava di essere un impostore, al soldo di chi non lo amava. Si spinse oltre, e parlò addirittura di un complotto organizzato da nemici incapaci di amare il proprio paese e il proprio sovrano.
Allora, Re Piffero, pensò che era arrivato il momento di essere coerente con il nome prescelto  quando si insediò sul trono. Chiamò il banditore del regno. Si presentò sul solito balcone, che lo ospitava quando aveva bisogno di fare annunci al popolo, e rese pubblico il suo pensiero :
-   “… sudditi di Onassas! Quello che sta avvenendo alle mie spalle è veramente indecente. Nemici miei, e del bene del popolo tutto, stanno tramando, raccontando che in questo regno si vuole trasferire il potere alle pantegane che noi abbiamo gentilmente scelto di ospitare.
Non è così! Le pantegane il potere ce l’hanno già.
E’ da quando io siedo sul trono che, loro, hanno un ruolo importante nel decidere del vostro destino e del vostro futuro!...
Bisogna farsene una ragione e, almeno, sino a quando ci sarò io, con loro bisogna convivere, ed accettare che facciano parte della vostra vita …
Io sono il Piffero ed io decido… Ed ho deciso che per favorire la necessaria convivenza organizzerò un grande evento. Lo chiamerò il concerto per “Piffero e pantegane”. L’estate di Onassas sarà allietata.
Allevierò le vostre serate. Farò si che tutte le pantegane possano trovare in Onassas il regno dei loro sogni… Fidatevi!!!...”.
I sudditi, perplessi, lo ascoltarono.
Qualcuno, per non essere scomunicato, non si lamentò, anche se avrebbe voluto farlo.
A differenza di quell’altro regno, dove le pantegane seguirono il piffero e finirono in un fiume annegando, ad Onassas si riunirono tutte, “core a core”, nello spiazzo reale e, insieme al Piffero, primo strumento dell’orchestra, organizzarono un gran concerto per alleviare le notti stellate.
Il Piffero, delle pantegane, proprio non poteva fare a meno, ed amava sempre circondarsi della loro compagnia.
Da quel giorno i giardini reali furono ribattezzati “del concerto del piffero e delle pantegane” e, le estati di Onassas, si trasformarono in abituali luoghi di ritrovo cui non potevano mancare…
Di tutto quanto i sudditi furono grati alla capacità affabulatoria delle note del Piffero…