domenica 7 aprile 2013

“RE PIFFERO: il fortunello che ritrovò il sorriso sulle disgrazie altrui ”…



C’era una volta – o forse c’è ancora - quel Re…
Quel Re che non riuscì a diventare Sommo Sacerdote perché trovò il portone con clave.
Lui ci aveva creduto ma, quando si presentò all’ingresso del grande tempio, non lo fecero entrare. Nemmeno lì, come già era successo nella locanda del paese.
In realtà, per entrare, bisognava essere immuni dalla violazione dei comandamenti quali atti contro natura, affari poco puliti e, soprattutto, menzogne.
Il candidato avrebbe dovuto essere al di sopra di qualsivoglia chiacchiera, sospetto e ombre… Ed il Piffero questo non lo riuscì a dimostrare…
Anzi, altre ombre si addensavano sulla sua testa. Si raccontava che durante la sua lunga assenza, e silenzio, persino la Piffera non era riuscita a nascondere la sua delusione e, così, si era lasciata cadere, abbandonandosi, tra le braccia di uno dei consiglieri – “Consolatio” – più vicino al Piffero, per trovare la forza e attendere che, l’ormai seguace e “devoto” di San Martino, tornasse a dedicarle l’attenzione che lei si aspettava.
Mentre la Piffera si consolava, il Piffero si alienava, in compagnia dei propri incubi…
Ma un fatto nuovo gli fece ritornare sorriso e persino la parola. Mai come prima, Re Piffero, torno a scorreggiare più forte che mai e, soprattutto, contro tutti quelli colpevoli di non andargli dietro. Di non onorarlo della stima pretesa.
Era accaduto che il “Gran Consiglio dei regnanti” non riuscisse ad insediarsi. I re, litigiosi, non si riuscivano ad accordare e si doveva tornare a rieleggere i rappresentanti.
Questo fatto diede coraggio al Piffero. Gli fece ritrovare fiato, energie ed anche la parola persa, tanto da far credere ai sudditi che fosse affetto da “petomania orofaringea” acuta.
Cominciò persino ad inveire contro tutti quei disonesti degli onassassini che, pur di non vederlo tra i prescelti, a suo dire, avevano imbrogliato e fatto carte false per fargli del male ed umiliarlo… 
Così, aveva ordinato il solito megafono, sempre servile e disponibile quando lui voleva avere un palco dal quale spifferare le sue elucubrazioni, ed aveva sputato veleno. Prima sullo Smacchia Giaguaro, che non pareva ascoltarlo e, poi, sui poveri sudditi del suo piccolo regno, colpevoli di aver imbrogliato i risultati della consultazione nella quale lui – personalmente – aveva implorato, casa per casa, di sceglierlo.
Aveva persino portato i questuanti, gli accattoni, gli storpi e gli ammalati – anche quelli gravi – promettendo loro cure e consulti gratuiti presso curanderos più capaci di quanto non fosse lui. Altri era andato a chiamarli a casa, o nell’ovile, e li aveva accompagnati, con premura, sino al momento di consegnare la loro preferenza, assicurandosi che l’avessero espressa sul foglietto che lui stesso gli aveva dato. Ai servitori del palazzo aveva intimato di non andare, a meno che la scelta non fosse ricaduta sulla sua persona, e se qualcuno si fosse azzardato a fare cosa diversa ne avrebbe pagato le conseguenze.
Ai più intimi chiese – quasi implorando – di scegliere lui, per non dargliela vinta ai “cospiratori” di Onassas che si erano coalizzati per renderlo ridicolo agli occhi del mondo, anche se, in realtà, non si rendeva conto che, agli occhi del mondo, Re Piffero ridicolo lo era già… 
Re Piffero, sulle scale del “palazzo del voto”, rimase ad aspettare tutti ed a dispensare abbracci, stringimani, baci e carezze, non solo alle “vedove” comari, nostalgiche del Re ciarliero che fu, ma anche agli uomini…
Il popolo non ricordava, a memoria d’uomo, un periodo così lungo di malgoverno ed inetti governanti capaci di imporre solo tributi, menzogne e consolarsi con falsi riconoscimenti e con la lussuria che aveva contagiato, come un virus, la corte, i consiglieri e la Piffera intristita ma, affettuosamente, assistita da braccia amorevoli che si stavano sostituendo a quelle del Piffero che, ormai, era preso da altro.
L’affetto della Piffera si trasformò nell’esempio vivente di gestione partecipata del regno… 
Da quando nel Gran Consiglio si cominciò a litigare, Piffero, nelle sempre più frequenti uscite pubbliche, era preceduto da un sorriso che, in confronto, quello dello sciacallo “ridens” era il pianto di un becchino.
E, proprio, da becchino si vestiva quando convocava le riunioni con i picconatori che aveva chiamato a dargli una mano per cercare di ricostruire la sua credibilità tra i pochi sudditi che ancora gli concedevano credito.
Lui al sogno, di entrare nel Gran Consiglio, non aveva rinunciato ed ora aveva cominciato a ricrederci con più forza che pria, attribuendo ad altri le sue “virtù” delinquenziali…
Tra quei pochi che gli erano rimasti fedeli non mancava qualche insoddisfatta zitella – o “generosa” serva - sempre pronte a supplicarlo di eliminare le voci che dissentivano. Qualcuna, vestiti i panni della passionaria delusa, impallidita e smagrita da tanto attendere non riusciva a capacitarsi del perché non fosse ancora riuscito ad appagare i suoi desideri e a far imprigionare e troncare le malelingue.
Eppure al Piffero, ed al consiglier Sculetta, le “amicizie” tra i giudici non mancavano. Assieme organizzavano e partecipavano a feste e banchetti. Ma erano condannati a sopportare, senza che potessero far nulla, i racconti dei sudditi che, ormai, suonavano come provate verità. 
Intanto, per quanto il lavoro quotidiano fosse dedicato ad imporre l’illusione di una realtà che esisteva solo nella mente di Re Piffero, Avvelenavipere, Sculetta e quel che restava della compagnia, la consapevolezza si era fatta strada e, agli spifferi iniziali, al chiacchiericcio del popolo, si stava sostituendo il rumore sordo delle raffiche del vento che precede l’uragano e che il passaggio di stagione stava preannunciando all’orizzonte…

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