C’era una volta – o forse c’è ancora - un re …
E, con lui, c’era il consiglier Avvelenavipere quello
che poteva parlare senza chiedere il permesso, che non appariva quasi mai, ed aveva
sempre l’ultima parola sulle questioni che riguardavano il regno …
Ognuno, affermava, “in casa propria fa ciò che vuole”, e dava sempre ragione alla
moglie quando ricordava : “ noi, non
abbiamo pietà di nessunooo!!!”.
Lui, si sentiva sempre padrone… Anche in casa
d’altri, tanto da contribuire a fare, della casa di tutti, il letamaio del
regno.
Re Piffero non avrebbe mai potuto aspirare al trono senza l’aiuto del
pusillanime consigliere che, in cambio, lo usava come le massaie i coperchi
degli orinali.
Era quello a cui gli spifferi, prima di uscire dal
palazzo, chiedevano il permesso. E, i raggi di sole, non entravano mai dalle
finestre aperte senza che, Avvelenavipere, consentisse loro di illuminare le
stanze e l’attività che in esse si svolgeva.
Accompagnato sempre dal “fido” consiglier Er Nasca,
e dal “reggicoda” Sor Ntoppa, si presentava come persona docile e buona. Disponibile.
Caritatevole. Uomo di pace e benefattore.
Era facoltoso, ma tanti erano i dubbi sulla sua
fortuna.
Aveva la possibilità di aprire il salvadanaio e
dare denaro a chi ne avesse avuto bisogno. Era anche disponibile all’elemosina.
Donava ai bisognosi solo ciò che, in realtà, poteva essere dato in pasto alle
bestie. E, i questuanti, in anni di vacche magre, non mancavano mai.
Persino quando organizzava qualche festa badava
sempre a non trascurare la servitù. Gli ospiti illustri da una parte e,
dall’altra, vi era, ogni volta, qualche bettola per i meno fortunati ove,
Avvelenavipere, li riceveva.
Se si impegnava in qualcosa riusciva sempre ad
accrescere la sua influenza personale ed a trarne beneficio. Per la sua
famiglia e qualche servitore.
Era riuscito persino a “speculare sull’aria”, che
pur avrebbe dovuto essere gratuita, traendone profitto. Riuscì a far credere
che solo quella contenuta nei suoi otri fosse pura e salutare.
A qualcuno, che si era visto costretto a chiedere il
suo aiuto - si raccontava –, “facilitò” l’ascensione nell’aldilà. Salvo, poi, far finta
di essere turbato per quel che era accaduto allo sventurato.
A lui interessava poco occuparsi del prossimo. La
beneficenza era solo lo specchio per le allodole utilizzato per coprire i
traffici che gli stavano più a cuore, come il commercio che aveva creato
attorno al “Monte dei Pegni” che aveva fatto suo …
Un giorno successe che una delle poche anziane del
borgo, che ancora si fidavano, si recasse a ritirare ciò che le rimaneva per
tirare a campare ma, con sua grande sorpresa, scoprì che, Avvelenavipere, né
aveva fatto fare un uso diverso da quello sperato e, alla malcapitata, non
restò che rammaricarsi della fiducia tradita. Non recuperò mai i suoi pochi beni.
Per riuscire a gestire i suoi affari non esitava ad
utilizzare i poveri servitori che erano costretti a lavorare con lui. Su di
loro faceva ricadere la responsabilità di tutto ciò che chiedeva venisse fatto.
Lui se ne lavava le mani, e non esitava a mandarli via quando non gli servivano
più.
A loro chiedeva di pretendere più del dovuto, affinché
potesse avere sempre liquidità, da cui attingere, per gratificare la sua corte
dei miracoli.
Anche a quel tempo la “riba”, e poi usura, era
considerata un peccato e i giudici la punivano. Ma non nel caso di
Avvelenavipere. Qualche giudice faceva finta di non vedere e, se qualcuno
urlava, persino, di non sentire. Lui, sapeva come imbonire qualche
disgraziato che pretendeva di chiamarlo a rispondere delle sue prepotenze. Quando
i commercianti, o i debitori, non erano in grado di restituire ciò che gli era
stato concesso pretendeva, in cambio, il banco della frutta, la stalla, il
mulino e quant’altro, che poi donava ai familiari.
Nel mercato di Onassas molti banchi, il mugnaio, le
locande e tanti mercanti, per sopravvivere, erano costretti a chiedere denaro
al suo Monte dei Pegni. Lui, prima appariva munifico concedendolo, poi, ne
pretendeva la restituzione a caro prezzo. Altrimenti, gli sgherri, portavano
via la casa, il carro, gli asini o i buoi utilizzati per arare.
Quando incrociava i suoi debitori per strada, o
nelle locande, li salutava, sorridendo beffardamente sotto le tonde lenti
poggiate sul naso, ricordando loro “il peso che portavano sul groppone” e scandendo il
tempo che mancava per la restituzione.
Intere famiglie dovevano sopportare i suoi
“umori”.
Una volta, invaghitosi di una giovin figliola della
quale aveva il triplo degli anni, aveva persino litigato con un vicino pretendendo di essere lui il privilegiato … Pensava
che tutto gli fosse dovuto!
Rispetto, stima, ubbidienza e, se qualcuno osava
ostacolarlo, lui minacciava di farlo interdire dall’autorità che, a quel tempo,
era al servizio dei potenti. Infatti, sedevano allo stesso tavolo.
Partecipavano alle stesse feste. Si servivano degli stessi lupanari e dividevano
le stesse donne che gli azzeccagarbugli, spesso, procuravano loro.
Quando Re Piffero si insediò sul trono -
Avvelenavipere - affrontò il regnante sconfitto e, con soddisfazione, gli
ricordò gli anni che aveva impiegato per mandarlo via, sghignazzando,
aggiunse : “alla fine ci sono riuscito”…
Quello, però, fu il principio della fine. Chi non lo
conosceva ebbe modo di apprezzare tutto il livore, e l’odio, di cui era capace
nei confronti, soprattutto, dei più deboli e di chi non si piegava mettendosi al suo servizio.
La sua incapacità a lavorare nell’interesse del
popolo si manifestò in tutta la sua rozza volgarità ma, intanto, molti occhi
cominciarono ad aprirsi, orecchie ad ascoltare e gambe stanche e disilluse ripresero a camminare…