mercoledì 17 aprile 2013

“RE PIFFERO fortunellum alla guerra della piffera ”…



C’era una volta – o forse c’è ancora - quel Re…  Che, stanco della noiosa quotidianità di un reame piccolo e insignificante, provò a cambiare il corso della storia...E dichiarò una guerra.
Quella di Troia, al confronto, era stata solo un pic-nic festivo. Infatti, da allora, ai bambini che avevano la sfortuna di nascere nel "regno del Piffero" si fece studiare, negli abbecedari,  la “guerra della piffera”.
Un intero capitolo le fu riservato.
Un giorno, il re ciarlatano, annunciò direttamente dal balcone del palazzo reale, alla sua corte dei miracoli, le sue bellicose bramosie. Non si affidò, però, al volere di tutti gli dei, ne agli umori di Minerva ma, solo, alle bizze di “Venere” al cui altare, ogni sera, era costretto a prostrarsi. Pensò anche a “cavalli di Troia” e tattiche intelligenti per sconfiggere i nemici.
Lui stesso, in un bizzarro e grigio mattino, urlò il desiderio di punire gli irriducibili avversari e le spie che avevano portato fuori dal palazzo, e raccontato, i suoi inconfessabili segreti. Quelli che fecero conoscere al mondo intero l’alterco reale con il consiglier Consolatio Capatesa. 
Una contesa “condita” da urla ed invettive. Mai un “unto” regio era stato sul punto di venire, quasi, sopraffatto da un suddito suo servitore, sino ad allora fedele.
Le urla si erano levate così forti da raggiungere i paesi vicini. Le udirono le lavandaie ma anche i barbieri e gli acquaioli, a cui non si chiedeva più “come era l’acqua” ma : “cosa succede al Piffero? ”. Tutti ne parlarono.
Piffero, non avrebbe avuto pace fino a che i suoi nemici non fossero stati puniti. Tutti, nessuno escluso. A cominciare dai traditori all’interno del palazzo.  
Decretò la fine della sua “magnanimità”. Le spie furono incaricate di sbirciare dai “buchi delle serrature”. Potevano essere dappertutto, a osservare ed origliare. Non fu più possibile fidarsi di nessuno.
Persino il bardo, che sino ad allora veniva “tollerato”, venne minacciato, offeso, perseguitato … Tra i suoi presunti amici fu infiltrato un giuda – a cui fu promessa la santità - con il compito di farlo tradire.
Re Piffero non voleva più che tutto ciò che si raccontava non fosse stato approvato, prima ancora che da lui, dalla stessa Piffera intristita.
Fu così che, per farle ritornare il sorriso smarrito, decise di fare un discorso al fidato esercito di servitori, schierato a difesa del suo “onore” offeso e deriso. Non prima di aver liberato i suoi piccioni viaggiatori che si appollaiarono sul davanzale dei nemici per comunicare le focose intenzioni.
In attesa di avventurarsi nella violenta battaglia, salì sul balcone reale e decise di “arrizzare” la esigua moltitudine, ancora disposta ad ascoltare le sue parole pronunciate, come d’abitudine, con lingua biforcuta.
Lui pensò : “se io racconto una storiella questi crederanno alle parole che io scoreggerò. Se smentirò di voler organizzare la Fiera dei Becchi e di essere un devoto di San Martino, testimoniando la mia fedeltà solo a San Culamo, essi non avranno dubbi. Ho ancora l’età per cambiare i santi a cui essere devoto. Se io urlerò che nulla è come è realmente avvenuto, ma tutto si presenta solo come io voglio che appaia, essi si fideranno ciecamente delle mie parole. E, se mi impegnerò a non rinascere cervo a primavera, i loro dubbi saranno definitivamente superati”.
E queste furono le parole che pronunciò.
Il suo storico discorso agli onassassini ebbe così tanto successo da venir recepito persino nei regni confinanti e non mancarono offerte di aiuto al valoroso condottiero. Persino Titella El Henà, principessa del regno di “Mille e più Tresche”, spese parole di incoraggiamento che toccarono il cuore e l’intestino crasso del regnante.
Confortato dal ritrovato affetto della Piffera, dalla fiducia della sua corte e dalle parole di Titella, Piffero concluse convinto la sua arringa, con a fianco il soddisfatto sorriso di Consolatio Capatesa, della cui “rassicurante” presenza, nelle apparizioni pubbliche, non riuscì più a fare a meno.
Unse la fronte dei fidati, indossò, per meglio infondere paura ai nemici, l’elmo cornuto le cui punte erano visibili in lontananza, e si avviò verso l’incerto futuro, imboscato dietro ai resti dell’esercito che fu.
Del suo discorso al popolo dubbioso, alla fine, rimase una sola certezza: quelli che sembravano spifferi di brezza primaverile si trasformarono in rumorose tormente.  
Lui non riuscì a convincere nessuno che non solo “Cesare, ma anche la moglie di Cesare, era al di sopra di ogni sospetto”. Anzi, anche chi non era attento alle vicende del regno di Onassas, alle miserie e meschine avventure dei suoi cortigiani, se non sapeva, suo malgrado, ne fu informato…

domenica 7 aprile 2013

“RE PIFFERO... E il giusto cimiero ”…

Lo so, lo ammetto... A Re Piffero, che non era indifferente ai "giusti premi", era stato assegnato un "cimiero" non degno degli "uomini" del suo rango... Fu subito fatto notare. Qualche zelante suddito, immediatamente aveva provveduto a reclamare. Il cimiero fu immediatamente sostituito. E, Re Piffero ne fece sfoggio in tutte le occasioni ufficiali. A sera, prima di dormire,lo poggiava sul comodino reale accarezzandolo con orgoglio. E' giusto dare alla "storia" il suo valore e correggere l'errore "dando a Cesare quel che è di Cesare"... Pardon, assegnare al Piffero quel che al Piffero appartiene...


“RE PIFFERO: il fortunello che ritrovò il sorriso sulle disgrazie altrui ”…



C’era una volta – o forse c’è ancora - quel Re…
Quel Re che non riuscì a diventare Sommo Sacerdote perché trovò il portone con clave.
Lui ci aveva creduto ma, quando si presentò all’ingresso del grande tempio, non lo fecero entrare. Nemmeno lì, come già era successo nella locanda del paese.
In realtà, per entrare, bisognava essere immuni dalla violazione dei comandamenti quali atti contro natura, affari poco puliti e, soprattutto, menzogne.
Il candidato avrebbe dovuto essere al di sopra di qualsivoglia chiacchiera, sospetto e ombre… Ed il Piffero questo non lo riuscì a dimostrare…
Anzi, altre ombre si addensavano sulla sua testa. Si raccontava che durante la sua lunga assenza, e silenzio, persino la Piffera non era riuscita a nascondere la sua delusione e, così, si era lasciata cadere, abbandonandosi, tra le braccia di uno dei consiglieri – “Consolatio” – più vicino al Piffero, per trovare la forza e attendere che, l’ormai seguace e “devoto” di San Martino, tornasse a dedicarle l’attenzione che lei si aspettava.
Mentre la Piffera si consolava, il Piffero si alienava, in compagnia dei propri incubi…
Ma un fatto nuovo gli fece ritornare sorriso e persino la parola. Mai come prima, Re Piffero, torno a scorreggiare più forte che mai e, soprattutto, contro tutti quelli colpevoli di non andargli dietro. Di non onorarlo della stima pretesa.
Era accaduto che il “Gran Consiglio dei regnanti” non riuscisse ad insediarsi. I re, litigiosi, non si riuscivano ad accordare e si doveva tornare a rieleggere i rappresentanti.
Questo fatto diede coraggio al Piffero. Gli fece ritrovare fiato, energie ed anche la parola persa, tanto da far credere ai sudditi che fosse affetto da “petomania orofaringea” acuta.
Cominciò persino ad inveire contro tutti quei disonesti degli onassassini che, pur di non vederlo tra i prescelti, a suo dire, avevano imbrogliato e fatto carte false per fargli del male ed umiliarlo… 
Così, aveva ordinato il solito megafono, sempre servile e disponibile quando lui voleva avere un palco dal quale spifferare le sue elucubrazioni, ed aveva sputato veleno. Prima sullo Smacchia Giaguaro, che non pareva ascoltarlo e, poi, sui poveri sudditi del suo piccolo regno, colpevoli di aver imbrogliato i risultati della consultazione nella quale lui – personalmente – aveva implorato, casa per casa, di sceglierlo.
Aveva persino portato i questuanti, gli accattoni, gli storpi e gli ammalati – anche quelli gravi – promettendo loro cure e consulti gratuiti presso curanderos più capaci di quanto non fosse lui. Altri era andato a chiamarli a casa, o nell’ovile, e li aveva accompagnati, con premura, sino al momento di consegnare la loro preferenza, assicurandosi che l’avessero espressa sul foglietto che lui stesso gli aveva dato. Ai servitori del palazzo aveva intimato di non andare, a meno che la scelta non fosse ricaduta sulla sua persona, e se qualcuno si fosse azzardato a fare cosa diversa ne avrebbe pagato le conseguenze.
Ai più intimi chiese – quasi implorando – di scegliere lui, per non dargliela vinta ai “cospiratori” di Onassas che si erano coalizzati per renderlo ridicolo agli occhi del mondo, anche se, in realtà, non si rendeva conto che, agli occhi del mondo, Re Piffero ridicolo lo era già… 
Re Piffero, sulle scale del “palazzo del voto”, rimase ad aspettare tutti ed a dispensare abbracci, stringimani, baci e carezze, non solo alle “vedove” comari, nostalgiche del Re ciarliero che fu, ma anche agli uomini…
Il popolo non ricordava, a memoria d’uomo, un periodo così lungo di malgoverno ed inetti governanti capaci di imporre solo tributi, menzogne e consolarsi con falsi riconoscimenti e con la lussuria che aveva contagiato, come un virus, la corte, i consiglieri e la Piffera intristita ma, affettuosamente, assistita da braccia amorevoli che si stavano sostituendo a quelle del Piffero che, ormai, era preso da altro.
L’affetto della Piffera si trasformò nell’esempio vivente di gestione partecipata del regno… 
Da quando nel Gran Consiglio si cominciò a litigare, Piffero, nelle sempre più frequenti uscite pubbliche, era preceduto da un sorriso che, in confronto, quello dello sciacallo “ridens” era il pianto di un becchino.
E, proprio, da becchino si vestiva quando convocava le riunioni con i picconatori che aveva chiamato a dargli una mano per cercare di ricostruire la sua credibilità tra i pochi sudditi che ancora gli concedevano credito.
Lui al sogno, di entrare nel Gran Consiglio, non aveva rinunciato ed ora aveva cominciato a ricrederci con più forza che pria, attribuendo ad altri le sue “virtù” delinquenziali…
Tra quei pochi che gli erano rimasti fedeli non mancava qualche insoddisfatta zitella – o “generosa” serva - sempre pronte a supplicarlo di eliminare le voci che dissentivano. Qualcuna, vestiti i panni della passionaria delusa, impallidita e smagrita da tanto attendere non riusciva a capacitarsi del perché non fosse ancora riuscito ad appagare i suoi desideri e a far imprigionare e troncare le malelingue.
Eppure al Piffero, ed al consiglier Sculetta, le “amicizie” tra i giudici non mancavano. Assieme organizzavano e partecipavano a feste e banchetti. Ma erano condannati a sopportare, senza che potessero far nulla, i racconti dei sudditi che, ormai, suonavano come provate verità. 
Intanto, per quanto il lavoro quotidiano fosse dedicato ad imporre l’illusione di una realtà che esisteva solo nella mente di Re Piffero, Avvelenavipere, Sculetta e quel che restava della compagnia, la consapevolezza si era fatta strada e, agli spifferi iniziali, al chiacchiericcio del popolo, si stava sostituendo il rumore sordo delle raffiche del vento che precede l’uragano e che il passaggio di stagione stava preannunciando all’orizzonte…

“RE PIFFERO: il fortunello che sognava di diventare Pifferum I° ”…




C’era una volta – o forse c’è ancora - quel Re…
Quel Re che, improvvisamente, si era intristito.
Re Piffero, da tempo, non riusciva ad essere felice. Non pifferava più, né presenziava ai periodici incontri che si svolgevano tra gli appartenenti al suo rango.
Agli amici più stretti aveva persino confessato che, di Onassas, non né poteva più. Troppo grande ed angoscioso il peso del regno. Così decise di sfogarsi.
Prima “scomunicò” e poi licenziò un ministro colpevole di non amarlo più come un tempo, e di usare il grande muro della piazza principale dove si pubblicavano gli avvisi del Governo.  Il ministro era solito lasciare messaggi di affetto, ma anche nostalgici, che invocavano Re detronizzati o in carica in altri regni. Poi, cominciò a comunicare con i sudditi solo con i “pizzini”, lasciati sul muro del palazzo. Ringraziava, minacciava, suggeriva, omaggiava, avvisava… ed in qualche caso si lodava della sua “magnanimità” e comprensione nei confronti dei malcapitati,disgraziati e scalognati.
Da pratico curandero qual era, non mancava di suggerire terapie affinché il morbo del “livore” – così lui lo aveva diagnosticato -  che affliggeva qualche suo impertinente suddito, potesse essere curato.
Lui era fatto così… Chi non lo amava era da curare…  
Qualche vorace cortigiano, non sazio, ma gratificato da tanta bontà, cominciò a plaudire ed a lasciare i suoi commenti : “Bravo il nostro Piffero… Che gli invidiosi chiedano scusa “. E, ancora, “non lo faranno mai perché la saggezza non gli appartiene!!!”. “Sei il migliore dei sovrani possibili”. “Tu si che non ci deludi!”… “Schiattino gli invidiosi che vogliono essere al tuo posto e ti criticano con assiduità”…
Ma, intanto, il regno viveva un periodo di dissolutezza sfrenata.
Strade che, riparate con materiali scadenti, aprivano voragini al solo passaggio di qualche asino. Un operoso ministro fu abbandonato dalla “promessa” che, annoiata, fuggì con la guardia. Cortigiane che si lasciavano affascinare da qualche canuto, ammogliato, “rubacuori” e il popolo curioso a spettegolare.
Erano i segni del cambiamento …
Però, un fatto eccezionale, più di tutto, in quelle settimane, aveva calamitato le attenzioni dei sudditi.
Il Sommo Sacerdote aveva rinunciato al suo ruolo di grande guida e pastore. Un altro “trono” era vacante.
Questo evento, più unico che raro, aveva stimolato le fantasie e fatto pensare che, anche Re Piffero, potesse aspirare a quel seggio.  In fondo si trovava sempre nello stesso posto, solo bisognava attraversare un ponte, una grande piazza, e il sogno si sarebbe avverato.
Una notte, i ministri a lui più fidati, si riunirono di nascosto e dietro suggerimento di Sculetta, supportato da Appendiquadri, si trovarono d’accordo sulla terapia da suggerire per farlo uscire dal suo cronico stato di incapacità di azione.
Dopo qualche giorno – uno di quei rari giorni in cui Piffero decideva di comparire in pubblico – lo presero da parte e, accompagnato nella sala del trono, gli spiegarono :
- “ sire, noi ci abbiamo pensato tanto. Abbiamo riflettuto, con attenzione e senso di responsabilità, sui principi e suggerimenti che hai voluto, negli ultimi tempi, condividere con il popolo attraverso il muro del dialogo.  Abbiamo anche ascoltato il pensiero di chi ti vuole bene. Di chi crede che tu sia il migliore. Siamo convinti che la tua magnanimità, la tua bontà, il tuo altruismo, il tuo alto senso del sacrificio, la tua fame di presenzialismo, la tua capacità di individuare il fallo dei folli, meritino ben altro destino e considerazione.
Il regno di Onassas è ben poca cosa per te, e poi si sa come sono gli onassassini, un “popolo pesante” che, se abbandoni la loro festa patronale, per andare al di la del grande lago salato, non perde l’occasione per diffamare la tua opera ed il bene che fai. 
Oggi, si apre per te una grande occasione. Un’opportunità che non puoi lasciarti sfuggire. Da cogliere al volo. Lo meriti, ed  è necessario che il “Sommo Sacerdote” si possa identificare anche in chi, per ragion di Stato, è  un po’ falso ed inaffidabile, circondato da cortigiani ancora più falsi, e che è riuscito a conquistare tutto ciò che ha grazie a burattinai e protettori. Capace di dire e meno a fare.
Deve poter rappresentare il nuovo! Chi meglio di te? Anche i giudici ti ascolterebbero di più e nessuno oserebbe criticarti...”
Sculetta fu così convincente che, al Piffero, brillarono gli occhi, a tal punto da apparire simili alle luci scintillanti utilizzate per le feste.
Gli stava semplicemente sussurrando quel che lui amava sentirsi raccontare.
Piffero, appoggiò le sue sempre più lunghe narici, alimentate da continue “verità”, sui gomiti e piegò la testa sognante…
Già si immaginava – dopo aver vestito tanti altri abiti - coperto anche dalla fimbria, con il corteo che lo accompagnava festoso, in attesa di apparire al balcone per il consueto annuncio, roteando le braccia, urbi et orbi, per salutare il popolo implorante.
E, mentre Appendiquadri avrebbe continuato ad alimentare il camino per far uscire il  fumo messaggero, Sculetta, suo camerlengo, roteandosi come un pavone in amore, avrebbe annunciato : “Annuntio vobis gaudium magnum: “Ecce Homo”! Eminentissimum ac reverendissimum Dominum Dominum Pifferum. Sibi nomen imposuit: Pifferum I° “Fortunellum et Magna…nimum”.(*)
Così, anche tra i sudditi, qualcuno cominciò a credere che, forse, per il bene di Onassas…

(*) Nota: "Vi annuncio una grande gioia: ecco l’uomo. Eminentissimo e reverendissimo Signore, il Signor Piffero. Ha preso il nome: Piffero 1° “Fortunello Magna…nimo ")…

“RE PIFFERO… AMMOSCIATO”.




C’era una volta – o forse c’è ancora - quel re…
Quel re che, improvvisamente, si intristì. Il Piffero non stonava più come un tempo. Non che fosse guarito dalla sua cronica ipocrisia per dire cose sagge. Men che mai fosse riuscito a risolvere i problemi dei suoi sudditi. No. Re Piffero era piombato in una angosciosa tristezza.
Un silenzio inconsueto per uno che del produrre aria, sottoforma di sciocchezze, attraverso l’apparato vocale aveva fatto una ragione di vita. E, nonostante si intendesse dell’antica pratica curandera non riusciva a trovare una soluzione alle sue angustie.
Rivelatosi dannoso e poco utile agli altri, ora il suo egoismo prevaricatore, e presenzialista, gli aveva annebbiato a tal punto il comprendonio che non riusciva più ad essere utile nemmeno a se stesso…
Tutto era cominciato con una illusione : qualcuno – ma di ciò ne era convinto lui stesso – gli aveva fatto credere che era il “re” più capace e intelligente del creato. Il migliore. E che dovesse aspirare a far parte del “Gran Consiglio dei regnanti”. Quello nel quale si riunivano i sovrani eletti in rappresentanza di tutti i re del continente.
Sin dal primo momento in cui era stato nominato ad Onassas tutto quanto aveva fatto era solo in funzione del seggio nel Gran Consiglio. A lui di Onassas non gli era mai “fregato” nulla. Agli onassassini raccontava favole e si inventava scuse per giustificare le sue incapacità. La sua ignoranza nelle vicende di stato era grande. Su di lui cominciavano a girare barzellette e storielle.
Tutto veniva organizzato affinché il popolo potesse credere che il suo Re era quello più capace. Ai bambini veniva imposto di partecipare alle sue feste invece di andare a scuola. Saltimbanchi e giullari erano chiamati a celebrarlo nelle piazze. A lodare la sua presunta “grandezza” e le sue dubitabili doti. I megafoni, ruffiani, banditori e propagandisti di corte non perdevano occasione per descrivere una inesistente realtà da dare in pasto ai creduloni, e puntualmente venivano premiati con il riconoscimento che lui stesso si era inventato : “l’Amorphophallus dorato”.
Per il popolo, invece, in premio veniva concesso l’aumento dei dazi e delle gabelle e tributi i cui proventi servivano a mantenere alto il tenore delle sue celebrazioni e a gratificare le sue cortigiane e lacchè. Le strade non venivano più pulite e la pubblica illuminazione era stata ridotta ed in alcuni casi eliminata. Per far fronte ai costi della corte furono vendute anche le scuole e le stalle reali furono acquistate da un ignoto ed altruista benefattore dei sudditi dedito alla pratica dell’usura… L’unico in grado di poter spendere.
Solo ad alcuni era concesso di poter entrare nel Gran Consiglio. Quelli che ci riuscivano godevano di privilegi che nessun altro aveva. Alla fine, chiudevano fuori il mondo reale e si concentravano solo sugli interessi di casta e dei loro servitori. A nulla servivano le rivolte di piazza delle madri incapaci di sfamare i loro figli o dei padri che perdevano il loro lavoro o non lo trovavano.
Per questo, il Gran Consiglio, era un luogo nel quale molti aspiravano ad entrare, nonostante si raccontasse una storia: coloro i quali vi erano riusciti da persone capaci, oneste, al servizio del popolo quali erano si trasformavano in cattivi, cinici e prevaricatori assetati di potere e danaro. Tradivano gli amici e cambiavano ogni giorno cortigiane riservandosi il privilegio della compagnia migliore.  Non riuscivano più a fare a meno delle feste, banchetti, saltimbanchi e sbornie offerte con il denaro dei sudditi.
Re Piffero ci aveva provato. Ci aveva anche creduto!!! Aveva indossato il vestito più pulito e sgargiante, quello delle grandi occasioni, per coprire le sue nudità moleste e viaggiato su e giù per il continente, sempre in compagnia della Pifferina, per incontrare i potenti mediatori che avrebbero potuto aprirgli le porte del Gran Consiglio. La Piffera, in fondo, quando si era invaghita di quel Piffero li aveva creduto alle sue ciarlatane promesse, tra cui : “…vedrai, un giorno ti porterò lontano da questo piccolo ed insignificante regno e ci faremo accogliere nel Gran Consiglio dove nulla ci potrà essere impedito…”.  
Gli amici e quelli dei suoi amici, però, lo avevano portato al guinzaglio come i cani con cui si accompagnavano nelle loro passeggiate.
Lui pensava di poter far condividere il suo calice di chiacchiere al mondo intero e farsi “apprezzare”. Ma dovettero apprezzarlo davvero poco se, alla fine, fece ritorno nel piccolo regno nel quale qualcuno, in un impeto di adulazione, aveva anche scritto un manifesto di benvenuto e lo aveva affisso sulla piazza dedicatagli ancor prima di tirare le cuoia…“Grazie Piffero per le bugie che sai cantare”.
Il Piffero dovette, suo malgrado, prendere atto di una crudele verità : lui non era il “re” capace, intelligente, benefattore e “miracoloso” che il popolo aveva sperato di trovare. Non era amato ed ora sapeva di non esserlo mai stato. Aveva anche scoperto di essere un “guerriero di schiuma”. Ed ai sudditi non rimaneva altro se non la sensazione di chi cerca di stringere la mano ma il nulla, che si ritrovavano nel palmo, lasciava solo un molesto, deludente, senso di unto melmoso e appiccicoso.
Averlo visto all’opera aveva reso il popolo cosciente dell’errore che aveva commesso invocandolo. Forse gli erano rimasti fedeli solo il fido Appendiquadri  e il consiglier  Sculetta. Ma, non c’era da metterci le mani sul fuoco… Si sa come và il mondo, chi oggi ti è amico domani chissà, cambiare può…
Re Piffero da tempo non veniva più accompagnato in processione e, adesso, veniva persino spernacchiato dai suoi cittadini. Una volta fu cacciato da una locanda per colpa della Piffera. In un’altra occasione preso in giro da un cittadino cui fu costretto a urlare “era meglio farti morire”…  E persino Avvelenavipere aveva preso le distanze, facendo sempre l’esatto contrario di ciò che faceva lui.
Piffero, non riusciva a farne bene una e stanco del lungo peregrinare, amareggiato dai suoi insuccessi, esaurite le chiese cui chiedere miracoli, provò a sedersi pensieroso all’ombra dell’unico albero rimasto in piedi nel desolato regno, illuminato dall’unico raggio di sole invernale che ancora si azzardava a comparire in paese. Un paese piombato in un improvviso stato di desolazione.
Quell’anno scomparvero persino le luminarie, il tipico addobbo utilizzato per celebrare la festa più importante : quella del solstizio d’inverno. Sotto a quell’albero senza luci, assorto, cominciò a riflettere : sui risultati dei sondaggi del piffero che lo premiavano in continuazione e all’immagine, riflessa nel lucente medaglione di cui si fregiava, chiese : “ Piffero del mio Piffero perché non sono il più apprezzato?...” Ma lo specchio non rispose… 
Le luci non si accesero. E le poche che non erano state ancora trasferite per illuminare il costruendo castello e la porcilaia del consiglier Sculetta, emanavano un bagliore fioco, quasi triste.
Il fischio di un “ciufolo” provò a ricordargli che, sempre più famiglie, non sapevano cosa mettere sulla tavola per sfamare i propri figli. I tributi quell’anno avevano prosciugato i miseri risparmi, i vecchi erano abbandonati o scacciati dai loro ricoveri e i ragazzini avevano timore del loro futuro.
Il Piffero rispondeva cantando sempre la stessa canzone : “piffero qua, piffero la, sono un piffero che fà…” e cercava di far credere che se le cose, ad Onassas, andavano male non era colpa sua.
Aveva così tanto creduto di poter meritare di sedere nel Gran Consiglio da aver trascurato di occuparsi di qualsiasi cosa potesse essere utile all’interesse del popolo.
La sua fissazione si trasformò in una infermità che gli fece salire la temperatura e, ora, nemmeno lui sapeva come uscirne. Si era talmente “ammosciato” che persino la Piffera si preoccupò.
E, così, prima tra i cortigiani angosciati dal poter perdere i tanti privilegi conquistati dopo un duro e ruffiano lavoro, e poi tra il popolo, ci si cominciò a chiedere se il Piffero sarebbe tornato a dedicare il suo tempo alla soluzione dei problemi che veramente interessavano la gente.
Ma un dubbio atroce si stava trasformando in negativa certezza : era veramente capace?   
Qualcuno cominciava a credere che fosse necessario cercarsi un’alternativa : cambiare l’inutile “Re Piffero con un Re  Zampogna…”