C’era una volta – o forse c’è ancora - quel Re…
Quel re a cui,
un giorno, si avvicinò un suddito. Uno di quelli che credeva ancora potesse
essere utile e rispettoso delle promesse (ma anche minacce) spese casa per
casa, focolare per focolare, prima di insediarsi sul trono.
Il malcapitato (che
non apparteneva alla corte dei miracoli) si recò al palazzo, quello a cui, una
volta, ci si rivolgeva per ricevere un aiuto o un consiglio. Attraversò l’ingresso
fiducioso pensando che, sua maestà, non governava solo per i suoi interessi, ma
anche per gli altri rassicurato dal fatto che, re Piffero, aveva oramai
ritrovato la serenità smarrita a causa degli umori della piffera ed aveva anche
ripreso a girare per matrimoni, prime comunioni, battesimi e funerali ove non
faceva mai mancare i suoi (spesso non richiesti) antipatici, ipocriti, sciacalli
e strumentali “sermoni”.
In quel palazzo,
non molto tempo prima, si raccontava che si potevano trovare porte che si
aprivano e persone che dovevano dare risposte ed aiutare chi si trovava in
difficoltà.
Ora, invece, le
trovò chiuse. Sbarrate. Era inutile bussare, quelle porte non sarebbero state
aperte e le persone che prima dovevano ascoltare i sudditi erano state destinate,
solo, al servizio di sua maestà e della sua corte dei miracoli.
Quella di Capatesa era sbarrata e i
servitori, sempre chiusi dentro, occupati solo a seguire ciò che stava a cuore
al Consolatio reale. A quella di
Sculetta nessuno osava bussare, tanto era inutile. Avvelenavipere si vedeva a
palazzo sempre meno. Di lui si raccontava che stesse organizzando un gruppo di
congiurati, stanco delle bizzarrie del Piffero. In realtà, a lui, stava a cuore
solo far si che la sua attività usuraia proliferasse sempre di più e, perciò,
lo si incontrava spesso in giro per locande a ricordare, con pacche sulle
spalle, il peso debitorio e gli interessi che i suoi disgraziati avventori
portavano sul groppone e, qualche volta, si mischiava anche in mezzo ai
pettegoli che non avevano di meglio da fare se non discutere del “piffero”
della Piffera.
L’unica porta –
volutamente socchiusa – cui ci si doveva rivolgere era quella di Piffero che, a
seconda del suo umore, decideva se farti accedere, oppure no. Non prima di aver
fatto la necessaria anticamera al cospetto di Appendiquadri. L’inutile reggicoda
che albergava sempre sull’uscio. Ubriaco del fiume di parole, e chiacchiere
vuote di senso compiuto, che solitamente scorreggiava nelle sue apparizioni
pubbliche e, che, i sudditi erano costretti a sopportare, il pover’uomo chiese
al re Piffero un aiuto ed un consiglio.
Il magnanimo,
dopo avergli concesso il privilegio di ascoltare la sua richiesta, appoggiò su
un enorme tavolo la cornucopia – simbolo del suo regno – sollevò per un attimo
la testa, guardò il suo ospite negli occhi, allungò il braccio e, dopo aver
roteato le braccia, come era solito fare quando voleva apparire come chi ha
qualcosa da dire, si blocco e, con voce gracchiante, rispose solennemente : “…
ti sono vicino con il pensiero”.
Quel giorno, lo sfortunato avventore, incredulo di “tanto affetto”, tornò a casa, riunì moglie e figli intorno ad una tavola, che continuava ad essere vuota, e chiese di metter su la pentola per preparare la minestra e sfamare la famiglia.
Quel giorno, lo sfortunato avventore, incredulo di “tanto affetto”, tornò a casa, riunì moglie e figli intorno ad una tavola, che continuava ad essere vuota, e chiese di metter su la pentola per preparare la minestra e sfamare la famiglia.
Alla
domanda della moglie – che lo guardava diffidente - su che cosa avessero cucinato rispose : “
oggi ci sazieremo con i ti sono vicino con il pensiero”.
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