C’era una volta – o forse c’è ancora - quel re…
Quel re che, improvvisamente, si intristì. Il
Piffero non stonava più come un tempo. Non che fosse guarito dalla sua cronica
ipocrisia per dire cose sagge. Men che mai fosse riuscito a risolvere i
problemi dei suoi sudditi. No. Re Piffero era piombato in una angosciosa
tristezza.
Un silenzio inconsueto per uno che del produrre
aria, sottoforma di sciocchezze, attraverso l’apparato vocale aveva fatto una
ragione di vita. E, nonostante si intendesse dell’antica pratica curandera non
riusciva a trovare una soluzione alle sue angustie.
Rivelatosi dannoso e poco utile agli altri, ora il suo egoismo
prevaricatore, e presenzialista, gli aveva annebbiato a tal punto il
comprendonio che non riusciva più ad essere utile nemmeno a se stesso…
Tutto era cominciato con una illusione : qualcuno –
ma di ciò ne era convinto lui stesso – gli aveva fatto credere che era il “re”
più capace e intelligente del creato. Il migliore. E che dovesse aspirare a far
parte del “Gran Consiglio dei regnanti”. Quello nel quale si riunivano i
sovrani eletti in rappresentanza di tutti i re del continente.
Sin dal primo momento in cui era stato nominato ad
Onassas tutto quanto aveva fatto era solo in funzione del seggio nel Gran
Consiglio. A lui di Onassas non gli era mai “fregato” nulla. Agli onassassini
raccontava favole e si inventava scuse per giustificare le sue incapacità. La
sua ignoranza nelle vicende di stato era grande. Su di lui cominciavano a
girare barzellette e storielle.
Tutto veniva organizzato affinché il popolo potesse
credere che il suo Re era quello più capace. Ai bambini veniva imposto di partecipare
alle sue feste invece di andare a scuola. Saltimbanchi e giullari erano
chiamati a celebrarlo nelle piazze. A lodare la sua presunta “grandezza” e le
sue dubitabili doti. I megafoni, ruffiani, banditori e propagandisti di corte
non perdevano occasione per descrivere una inesistente realtà da dare in pasto
ai creduloni, e puntualmente venivano premiati con il riconoscimento che lui
stesso si era inventato : “l’Amorphophallus
dorato”.
Per il popolo, invece, in premio veniva concesso l’aumento
dei dazi e delle gabelle e tributi i cui proventi servivano a mantenere alto il
tenore delle sue celebrazioni e a gratificare le sue cortigiane e lacchè. Le
strade non venivano più pulite e la pubblica illuminazione era stata ridotta ed
in alcuni casi eliminata. Per far fronte ai costi della corte furono vendute
anche le scuole e le stalle reali furono acquistate da un ignoto ed altruista
benefattore dei sudditi dedito alla pratica dell’usura… L’unico in grado di
poter spendere.
Solo ad alcuni era concesso di poter entrare nel Gran
Consiglio. Quelli che ci riuscivano godevano di privilegi che nessun altro
aveva. Alla fine, chiudevano fuori il mondo reale e si concentravano solo sugli
interessi di casta e dei loro servitori. A nulla servivano le rivolte di piazza
delle madri incapaci di sfamare i loro figli o dei padri che perdevano il loro
lavoro o non lo trovavano.
Per questo, il Gran Consiglio, era un luogo nel
quale molti aspiravano ad entrare, nonostante si raccontasse una storia: coloro
i quali vi erano riusciti da persone capaci, oneste, al servizio del popolo
quali erano si trasformavano in cattivi, cinici e prevaricatori assetati di
potere e danaro. Tradivano gli amici e cambiavano ogni giorno cortigiane
riservandosi il privilegio della compagnia migliore. Non riuscivano più a fare a meno delle feste,
banchetti, saltimbanchi e sbornie offerte con il denaro dei sudditi.
Re Piffero ci aveva provato. Ci aveva anche
creduto!!! Aveva indossato il vestito più pulito e sgargiante, quello delle
grandi occasioni, per coprire le sue nudità moleste e viaggiato su e giù per il
continente, sempre in compagnia della Pifferina, per incontrare i potenti
mediatori che avrebbero potuto aprirgli le porte del Gran Consiglio. La
Piffera, in fondo, quando si era invaghita di quel Piffero li aveva creduto
alle sue ciarlatane promesse, tra cui : “…vedrai,
un giorno ti porterò lontano da questo piccolo ed insignificante regno e ci
faremo accogliere nel Gran Consiglio dove nulla ci potrà essere impedito…”.
Gli amici e quelli dei suoi amici, però, lo avevano
portato al guinzaglio come i cani con cui si accompagnavano nelle loro
passeggiate.
Lui pensava di poter far condividere il suo calice
di chiacchiere al mondo intero e farsi “apprezzare”. Ma dovettero apprezzarlo
davvero poco se, alla fine, fece ritorno nel piccolo regno nel quale qualcuno,
in un impeto di adulazione, aveva anche scritto un manifesto di benvenuto e lo
aveva affisso sulla piazza dedicatagli ancor prima di tirare le cuoia…“Grazie
Piffero per le bugie che sai cantare”.
Il Piffero dovette, suo malgrado, prendere atto di
una crudele verità : lui non era il “re” capace, intelligente, benefattore e “miracoloso”
che il popolo aveva sperato di trovare. Non era amato ed ora sapeva di non
esserlo mai stato. Aveva anche scoperto di essere un “guerriero di schiuma”. Ed
ai sudditi non rimaneva altro se non la sensazione di chi cerca di stringere la
mano ma il nulla, che si ritrovavano nel palmo, lasciava solo un molesto, deludente,
senso di unto melmoso e appiccicoso.
Averlo visto all’opera aveva reso il popolo
cosciente dell’errore che aveva commesso invocandolo. Forse gli erano rimasti
fedeli solo il fido Appendiquadri e il
consiglier Sculetta. Ma, non c’era da
metterci le mani sul fuoco… Si sa come và il mondo, chi oggi ti è amico domani
chissà, cambiare può…
Re Piffero da tempo non veniva più accompagnato in
processione e, adesso, veniva persino spernacchiato dai suoi cittadini. Una
volta fu cacciato da una locanda per colpa della Piffera. In un’altra occasione
preso in giro da un cittadino cui fu costretto a urlare “era meglio farti morire”… E persino Avvelenavipere aveva preso le
distanze, facendo sempre l’esatto contrario di ciò che faceva lui.
Piffero, non riusciva a farne bene una e stanco del
lungo peregrinare, amareggiato dai suoi insuccessi, esaurite le chiese cui
chiedere miracoli, provò a sedersi pensieroso all’ombra dell’unico albero
rimasto in piedi nel desolato regno, illuminato dall’unico raggio di sole
invernale che ancora si azzardava a comparire in paese. Un paese piombato in un
improvviso stato di desolazione.
Quell’anno scomparvero persino le luminarie, il
tipico addobbo utilizzato per celebrare la festa più importante : quella del
solstizio d’inverno. Sotto a quell’albero senza luci, assorto, cominciò a riflettere
: sui risultati dei sondaggi del piffero che lo premiavano in continuazione e
all’immagine, riflessa nel lucente medaglione di cui si fregiava, chiese : “
Piffero del mio Piffero perché non sono il più apprezzato?...” Ma lo specchio
non rispose…
Le luci non si accesero. E le poche che non erano
state ancora trasferite per illuminare il costruendo castello e la porcilaia
del consiglier Sculetta, emanavano un bagliore fioco, quasi triste.
Il fischio di un “ciufolo” provò a ricordargli che,
sempre più famiglie, non sapevano cosa mettere sulla tavola per sfamare i
propri figli. I tributi quell’anno avevano prosciugato i miseri risparmi, i vecchi
erano abbandonati o scacciati dai loro ricoveri e i ragazzini avevano timore
del loro futuro.
Il Piffero rispondeva cantando sempre la stessa
canzone : “piffero qua, piffero la, sono un piffero che fà…” e cercava di far
credere che se le cose, ad Onassas, andavano male non era colpa sua.
Aveva così tanto creduto di poter meritare di
sedere nel Gran Consiglio da aver trascurato di occuparsi di qualsiasi cosa
potesse essere utile all’interesse del popolo.
La sua fissazione si trasformò in una infermità che
gli fece salire la temperatura e, ora, nemmeno lui sapeva come uscirne. Si era talmente
“ammosciato” che persino la Piffera si preoccupò.
E, così, prima tra i cortigiani angosciati dal
poter perdere i tanti privilegi conquistati dopo un duro e ruffiano lavoro, e
poi tra il popolo, ci si cominciò a chiedere se il Piffero sarebbe tornato a
dedicare il suo tempo alla soluzione dei problemi che veramente interessavano
la gente.
Ma un dubbio atroce si stava trasformando in negativa
certezza : era veramente capace?
Qualcuno cominciava a credere che fosse necessario
cercarsi un’alternativa : cambiare l’inutile “Re Piffero con un Re Zampogna…”
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